LeScienze “Come il cervello crea la linea temporale del passato”
Category: Attualità, Biologia / Neurologia, Fisica,Il cervello non può codificare direttamente il trascorrere del tempo, ma potrebbe mapparlo in qualche modo mettendo in sequenza gli eventi che sperimentiamo. Questa soluzione è suggerita dai risultati di studi recenti che hanno unito neuroscienze e matematica, sviluppando una teoria che potrebbe estendersi ad altri domini della cognizione di Jordana Capelewicz/Quanta Magazine
Tutto è iniziato circa dieci anni fa alla Syracuse University, negli Stati uniti, con una serie di equazioni scarabocchiate su una lavagna. Marc Howard, neuroscienziato della cognizione all’Università di Boston, e Karthik Shankar, che allora era uno dei suoi studenti post-dottorato, volevano ideare un modello matematico dell’elaborazione del tempo: una funzione neurologicamente computabile per rappresentare il passato, come una tela mentale su cui il cervello può dipingere ricordi e percezioni.
“Pensiamo a come la retina agisce in qualità di schermo, fornendo ogni sorta d’informazione visiva”, dice Howard. “Questo è ciò che è il tempo, per la memoria. E vogliamo che la nostra teoria spieghi come funziona quello schermo”.
Ma è abbastanza immediato rappresentare un quadro di informazioni visive, come l’intensità o la luminosità della luce, in termini di funzioni di determinate variabili, quale la lunghezza d’onda, perché i recettori dedicati nei nostri occhi misurano direttamente quelle grandezze in ciò che vediamo. Il cervello non ha lo stesso tipo di recettori per il tempo. “La percezione del colore o della forma è molto più ovvia”, spiega Masamichi Hayashi, neuroscienziato della cognizione all’Università di Osaka, in Giappone. “Ma il tempo è una proprietà molto elusiva”. Per codificarlo, il cervello deve fare qualcosa di meno diretto.
Individuare che aspetto avesse al livello dei neuroni è diventato l’obiettivo di Howard e Shankar. La loro unica intuizione nel progetto, ricorda Howard, era il “senso estetico che avrebbe dovuto esserci un piccolo numero di regole semplici e belle”.
Così hanno ricavato alcune equazioni per descrivere come in teoria il cervello potrebbe codificare
il tempo indirettamente. Nel loro schema, mentre i neuroni sensoriali si attivano in risposta a un evento che si sta svolgendo, il cervello mappa la componente temporale di quell’attività in una qualche rappresentazione intermedia dell’esperienza: una trasformata di Laplace, in termini matematici. Questa rappresentazione permette al cervello di conservare le informazioni sull’evento in funzione di qualche variabile che può codificare, invece che come funzione del tempo (che non può codificare).
Per un esperienza temporale, quindi, il cervello può mappare in senso inverso la rappresentazione intermedia in un’altra attività – una trasformata inversa di Laplace – al fine di ricostruire una registrazione compressa di ciò che è accaduto e quando.
Pochi mesi dopo che Howard e Shankar avevano iniziato a dare corpo alla loro teoria, altri scienziati avevano scoperto in modo indipendente i neuroni soprannominati “cellule del tempo”, che erano “il più vicino possibile ad avere quella registrazione esplicita del passato”, sottolinea Howard. Quelle cellule erano sintonizzate su determinati punti in un intervallo di tempo, con alcune che si attivavano, per esempio, un secondo dopo uno stimolo, e altre dopo cinque secondi, sostanzialmente colmando le lacune temporali tra le esperienze. Gli scienziati potevano osservare l’attività delle cellule e determinare quando era stato presentato uno stimolo in base a quali cellule si erano attivate. Questa era la trasformazione inversa di Laplace del modello dei ricercatori, l’approssimazione della funzione del tempo passato. “A quel punto ho pensato che quella roba sulla lavagna avrebbe potuto essere la cosa giusta’”, ricorda Howard.
“È stato allora che ho capito che il cervello avrebbe collaborato”, aggiunge.
Rinfrancati dal supporto empirico alla loro teoria, Howard e colleghi hanno iniziato a lavorare su un modello di riferimento più ampio, che sperano di usare per unificare i tipi di memoria del cervello estremamente diversi, e altro ancora: se le loro equazioni fossero implementate dai neuroni, potrebbero essere descrivere non solo la codifica del tempo ma anche una sfilza di altre proprietà, addirittura il pensiero stesso.
Ma questo è un grande punto interrogativo. Dalla scoperta delle cellule del tempo nel 2008, i ricercatori hanno osservato prove dettagliate e in grado di confermare solo metà della matematica coinvolta. L’altra metà – la rappresentazione intermedia del tempo – è rimasta teorica.
Fino alla scorsa estate.
Ordinamenti e marche temporali
Nel 2007, un paio di anni prima che Howard e Shankar iniziassero a buttar giù idee per il loro modello, Albert Tsao (ora ricercatore postdottorato alla Stanford University) era uno studente universitario in tirocinio al Kavli Institute for Systems Neuroscience, in Norvegia. Aveva trascorso l’estate nel laboratorio di May-Britt Moser e Edvard Moser, che da poco avevano scoperto le cellule a griglia – i neuroni responsabili dell’orientamento nello spazio – in un’area del cervello chiamata corteccia entorinale mediale. Tsao si era chiesto che cosa avrebbe potuto fare la sua struttura gemella, la corteccia entorinale laterale. Entrambe le regioni forniscono un contributo importante all’ippocampo, che genera le nostre memorie “episodiche” di esperienze che si verificano in un momento particolare e in un luogo particolare. Se la corteccia entorinale mediale era responsabile della rappresentazione di quest’ultimo, ragionava Tsao, allora forse la corteccia entorinale laterale ospitava un segnale di tempo.
Il tipo di tempo legato alla memoria a cui Tsao voleva pensare è profondamente radicato nella psicologia. Per noi, il tempo è una sequenza di eventi, una misurazione di contenuto che cambia gradualmente. Questo spiega perché ricordiamo gli eventi recenti meglio di quelli di molto tempo fa, e perché, quando viene in mente un certo ricordo, tendiamo a pescare dalla memoria eventi accaduti nello stesso periodo. Ma in che modo si è aggiunta a una storia temporale ordinata e quale meccanismo neurale l’ha abilitata?
All’inizio, Tsao non aveva trovato nulla. Anche definire il modo in cui affrontare il problema era stato difficile perché, tecnicamente, ogni cosa ha una certa qualità temporale. Aveva esaminato l’attività neurale nella corteccia entorinale laterale dei ratti mentre cercavano il cibo in un recinto, ma non aveva trovato nulla di dirimente in ciò che mostravano i dati. Nessun segnale temporale particolare sembrava emergere.
Tsao ha sospeso il lavoro, è tornato a studiare e per anni ha lasciato perdere i dati. Più tardi, come studente laureato nel laboratorio di Moser, ha deciso di riprenderlo in mano, questa volta cercando un’analisi statistica dei neuroni corticali a livello di popolazione. È stato allora che l’ha visto: uno schema di attivazione che, per lui, somigliava molto al tempo.
Lui, Mosers e colleghi hanno avviato esperimenti per testare ulteriormente questa connessione. In una serie di prove, un ratto era messo in una scatola, dove era libero di vagare e cercare cibo. I ricercatori registravano l’attività neurale dalla corteccia entorinale laterale e dalle regioni cerebrali vicine. Dopo pochi minuti, i ricercatori toglievano il ratto dalla scatola e lo lasciavano riposare, poi lo rimettevano nella scatola. Hanno fatto questo 12 volte in circa un’ora e mezzo, alternando i colori delle pareti (che potevano essere nere o bianche) tra le prove.
Quello che sembrava un comportamento neurale correlato al tempo si manifestava principalmente nella corteccia entorinale laterale. I tassi di attivazione di quei neuroni raggiungevano improvvisamente un picco quando il ratto entrava nella scatola. Mentre passavano i secondi e poi i minuti, l’attività dei neuroni diminuiva con velocità variabile. L’attività aumentava di nuovo all’inizio della prova successiva, quando il ratto rientrava nella scatola. Nel frattempo, in alcune cellule, l’attività diminuiva non solo durante ogni prova, ma durante l’intero esperimento; in altre cellule, era aumentata per tutto il tempo.
Basandosi sulla combinazione di questi schemi, i ricercatori – e presumibilmente i ratti – potevano distinguere le diverse prove (rintracciando i segnali associati a certe sessioni nella scatola, come se fossero marche temporali) e metterle in ordine. Centinaia di neuroni sembravano lavorare insieme per tenere traccia dell’ordine delle prove e della lunghezza di ognuna.
“Si ottengono modelli di attività che non si limitano a colmare ritardi per conservare le informazioni, ma analizzano la struttura episodica delle esperienze”, dice Matthew Shapiro, neuroscienziato dell’Albany Medical College di New York, non coinvolto nello studio.
I ratti sembravano usare questi “eventi” – i cambiamenti nel contesto – per avere un’idea di quanto tempo era trascorso. I ricercatori hanno ipotizzato che il segnale potesse apparire molto diverso quando le esperienze non erano così chiaramente divise in episodi separati. Così hanno fatto percorrere ai ratti una pista a forma di otto in una serie di prove, a volte in una direzione e a volte nell’altra. Durante questo compito ripetitivo, i segnali temporali della corteccia entorinale laterale si sovrapponevano, probabilmente indicando che i ratti non potevano distinguere una prova da un’altra: si mescolavano insieme nel tempo. I neuroni, tuttavia, sembravano seguire il passare del tempo nei singoli giri, in cui si verificavano abbastanza cambiamenti da un momento all’altro.
Tsao e colleghi erano rimasti entusiasti perché, ipotizzavano, avevano iniziato scorgere un meccanismo alla base del tempo soggettivo nel cervello, un meccanismo che permette di contrassegnare distintamente i ricordi. “Mostra quanto sia elastica la nostra percezione del tempo”, sottolinea Shapiro. “Un secondo può durare per sempre. I giorni possono svanire. È questo codice che analizza gli episodi e che, per me, fornisce una spiegazione molto chiara del modo in cui vediamo il tempo. Stiamo elaborando cose che accadono in sequenze e ciò che accade in queste sequenze può determinare la stima soggettiva di quanto tempo passa”. I ricercatori ora vogliono capire in che modo ciò accada.
In questo, la matematica di Howard avrebbe potuto essere d’aiuto. Quando ha sentito dei risultati di Tsao, presentati a una conferenza nel 2017 e pubblicati su “Nature” lo scorso agosto, era estasiato: i diversi tassi di decadimento che Tsao aveva osservato nell’attività neurale erano esattamente ciò che la sua teoria aveva previsto nella rappresentazione intermedia dell’esperienza nel cervello. “Sembrava una trasformata di Laplace del tempo”, racconta Howard, il pezzo di provenienza empirica che mancava nel modello suo e di Shankar.
“Era un po’ strano”, dice Howard. “Avevamo queste equazioni sul tavolo per la trasformata di Laplace e l’inversa nello stesso periodo in cui si stavano scoprendo le cellule del tempo. Quindi abbiamo passato gli ultimi dieci anni a vedere l’inversa, ma non avevamo visto la trasformazione vera. Ora l’abbiamo e sono piuttosto emozionato”.
“È stato eccitante”, dichiara Kareem Zaghloul, neurochirurgo e ricercatore degli statunitensi National Institutes of Health, “perché i dati che hanno mostrato erano molto coerenti con le idee di Howard”. (Nel lavoro pubblicato il mese scorso, Zaghloul e il suo gruppo hanno mostrato in che modo i cambiamenti negli stati neurali nel lobo temporale umano sono direttamente correlati alle prestazioni delle persone in un compito di memoria).
“C’era una probabilità diversa da zero che tutto il lavoro che avevamo fatto io, i miei colleghi e i miei studenti fosse solo immaginario. Ciò riguardava un insieme di equazioni che non esistevano da nessuna parte nel cervello o nel mondo”, aggiunge Howard. “Vederle lì, nei dati del laboratorio di qualcun altro… è stato un grande giorno”.
Costruire linee temporali del passato e del futuro
Se il modello di Howard è vero, allora ci dice come creiamo e manteniamo una linea temporale del passato: Howard la descrive come “lo strascico della coda di una cometa” che si estende dietro di noi mentre viviamo le nostre vite, diventando più sfocata e più compressa mentre procede verso il passato. Questa linea temporale potrebbe essere utile non solo alla memoria episodica dell’ippocampo, ma anche alla memoria di lavoro nella corteccia prefrontale e alle reazioni condizionanti nel corpo striato. Queste “possono essere intese come diverse operazioni che lavorano sulla stessa forma di storia temporale”, afferma Howard.
Anche se i meccanismi neurali che permettono di ricordare un evento come il nostro primo giorno di scuola sono diversi da quelli che permettono di ricordare un fatto come un numero di telefono o un’abilità come andare in bicicletta, potrebbero fare affidamento su questa base comune.
La scoperta delle cellule del tempo in quelle regioni del cervello (“Quando vai a cercarle, le vedi ovunque”, secondo Howard) sembra sostenere l’idea. E lo stesso vale per le scoperte recenti, che presto saranno pubblicate da Howard, Elizabeth Buffalo dell’Università di Washington e altri collaboratori: indicano che le scimmie che guardano una serie di immagini manifestano nella loro corteccia entorinale lo stesso tipo di attività temporale osservata da Tsao nei ratti. “È esattamente quello che ti aspetteresti: il tempo trascorso da quando l’immagine è stata presentata”, afferma Howard.
Howard sospetta che la registrazione supporti non solo la memoria ma anche la cognizione nel suo complesso. La stessa matematica, propone, può aiutarci a capire anche il nostro senso del futuro: si tratta di tradurre le funzioni coinvolte. E ciò potrebbe aiutarci a dare un senso alla capacità di “tenere il tempo”, coinvolta nella previsione degli eventi futuri (qualcosa che è basata sulla conoscenza ottenuta dalle esperienze passate).
Howard ha anche iniziato a dimostrare che le stesse equazioni che il cervello potrebbe usare per rappresentare il tempo potrebbero anche essere applicate allo spazio, alla numerosità (il nostro senso dei numeri) e al processo decisionale basato su prove raccolte: in definitiva, a qualsiasi variabile che possa essere espressa nel linguaggio di queste equazioni. “Per me, la cosa interessante è aver costruito un analogo neurale per il pensiero”, dichiara Howard. “Se riesci a scrivere lo stato del cervello… ciò che stanno facendo decine di milioni di neuroni… in forma di equazioni e trasformazioni di equazioni, questo è il pensiero”.
Con i colleghi ha lavorato per estendere la teoria ad altri domini della cognizione. Un giorno, questi modelli cognitivi potrebbero persino portare a un nuovo tipo di intelligenza artificiale (IA) costruita su una base matematica diversa da quella degli attuali metodi di apprendimento profondo. Solo il mese scorso, gli scienziati hanno costruito un nuovo modello di rete neurale di percezione del tempo, basato unicamente sulla misurazione e sulla reazione ai cambiamenti in una scena visiva. (L’approccio, tuttavia, si concentrava sulla parte di input sensoriale dell’immagine: che cosa stava accadendo in superficie, non in profondità nelle regioni del cervello correlate alla memoria che Tsao e Howard studiano.)
Ma prima che sia possibile qualsiasi applicazione all’IA, gli scienziati devono accertare in che modo il cervello stesso sta raggiungendo questo obiettivo. Tsao riconosce che c’è ancora molto da capire, compreso quello che spinge la corteccia entorinale laterale a fare ciò che sta facendo e quello che specificamente permette ai ricordi di essere contrassegnati. Ma le teorie di Howard offrono previsioni tangibili che potrebbero aiutare i ricercatori a individuare nuovi percorsi verso le risposte.
Naturalmente, il modello di Howard di come il cervello rappresenta il tempo non è l’unica idea. Alcuni ricercatori, per esempio, ipotizzano catene di neuroni, collegate da sinapsi, che si attivano in sequenza. Oppure potrebbe emergere che è coinvolto una trasformata di tipo diverso, non la trasformata di Laplace. Queste possibilità non smorzano l’entusiasmo di Howard. “Potrebbe ancora essere sbagliato”, sottolinea. “Ma siamo eccitati e stiamo lavorando sodo”.
(L’originale di questo articolo è stato pubblicato il 12 febbraio 2019 da QuantaMagazine.org, una pubblicazione editoriale indipendente onlinepromossa dalla Fondazione Simons per migliorare la comprensione pubblica della scienza. Traduzione ed editing a cura di Le Scienze. Riproduzione autorizzata, tutti i diritti riservati)
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